La testa mi scoppia e le orecchie ronzano a causa del rumore dei pattini della slitta sul ghiaccio e del continuo abbaiare dei cani. E' freddo e si avvicina il tramonto ma c'è un villaggio poco più avanti, se una manciata di catapecchie con il tetto di paglia ed una strada ghiacciata ricoperta di rifiuti ed escrementi di animali si puà definire tale. Però potrò riposare.
Scendo dalla slitta e slego i cani, mi guardo intorno: vorrei trovare un posto dove avere un pasto caldo prima che faccia buio.
Il silenzio ghiacciato viene interrotto. Grida e rumore di lame che cozzano mi riscuotono dai pensieri. Accorro. Dove c'è un crimine c'è una opportunità. Agli affari non sputo mai sopra.
Tre armature, un uomo, ricco a giudicare dalla bianca pelliccia, ormai schienato, due guardie assassinate ed una giovane donna tenuta ferma dal guanto di ferro di una delle tre armature che stringe le lunghe trecce bionde. Sono ancora troppo lontano per intervenire quando un lungo coltello trancia la gola dell'impellicciato. Vogliono prendersi la pelliccia, la donna e il denaro che sicuramente non manca ad un uomo che viaggia ben vestito e con delle guardie. Ma non c'è tempo, mi vedono e si schierano di fronte a me. Pure l'uomo che teneva la giovane lascia la presa e prende la spada. Lei piange, un rivolo di sangue le cola dal naso e le gocce cadute sul ghiaccio scintillano. Mi piace il rosso. E' solo un istante, non dò loro il tempo per capire. Gli sono addosso e mi rendo conto che è più facile di quanto pensassi. Sono grossi come orsi, ma comunque non quanto me, e con le armi ... lasciamo stare, pivelli agli inizi. Finisce tutto in pochi attimi. Poso gli occhi sulla donna inginocchiata che mi guarda tremante. Avrà meno di vent'anni e da vicino è ancora più bella. Per un attimo ci penso, poi cambio idea. Sono qui per affari e gli affari stanno arrivando, sento il suono della loro voce. Mezza dozzina di cavalli neri, lucidi come le piume del corvo, che sbuffano vapore dalle narici. Mi circondano. Quello che parrebbe il loro capo smonta, si toglie l'elmo. E' nero pure lui. Mi guarda e tace. Reggo lo sguardo e non poso la spada.
"C'è del lavoro, per uno come te" dice. Intanto rigira con un piede il corpo di una delle guardie. Poi pare interessarsi alle trecce bionde ma solo un istante. La fissa con una espressione pietosa poi si rivolge nuovamente verso di me ed ancora in direzione di quegli occhi chiari e umidi. Evidentemente non ama gli animali feriti.
Parlo.
"Sai investire bene il tuo oro, negro. Ma non mi hai ancora pagato".
La donna è come un gatto, si alza e corre. Mi basterebbe un attimo per raggiungerla ma la lascio fuggire. Rido e pure il negro ride.
"Dobbiamo discutere" mi fà cenno di seguirlo, cammina fino ad una locanda poco distante, scosta la pesante pelliccia di yak che ripara l’ingresso dal vento e dalla neve e ci sediamo ad un tavolo. Subito ci viene fornita la birra e un vassoio di carne arrostita, senza chiedere nulla. Evidentemente il negro è temuto da queste parti.
“I tre ladroni che hai massacrato sono in realtà uomini di Kanak. Attacca carovane di ricchi mercanti, depreda viaggiatori, rapina convogli che portano la merce alla città.”
Il negro mi guarda negli occhi
“Esattamente il mio lavoro, ma c’è un patto tra noi due: ognuno fà il proprio senza pestare i piedi all’altro. Kanak rispetta i patti ed anche io li rispetto.”
Il negro continua a fissarmi.
“Ma sta esagerando, troppo sangue è stato fatto scorrere dalle sue lame. Uccide anche senza motivo e i suoi uomini sono bestie come lui.”
“Io non ho fatto patti con nessuno” Rispondo.
Nel volto inespressivo del negro si apre un sorriso.
“Appunto”
“Partiremo all’alba. Aynuk è a quattro ore di marcia, là troverai Kanak. Agisci in fretta e per l’ora di cena sarai ricco: cento pezzi in oro, una parte subito. A lavoro finito il resto”
Fà un cenno al cimuro immobile alle sue spalle che esce dalla locanda. Ritorna dopo poco e mi porge un sacchetto di cuoio chiuso con un laccio. Slego il nodo e controllo il contenuto. Venticinque monete brillanti, il negro non è furbo. Mi sarebbero bastate ed avanzate quelle.
Finisco la birra, lascio una moneta sul tavolo.
“Pago io. A domani”.
La mattina dopo partiamo, la mezza dozzina diventa un caravanserraglio di disertori, galeotti, puttane e affaristi come me. Io me ne resto ai bordi della pista camminando con una mano appoggiata al bordo della slitta, una in tasca che accarezza l’oro e lo sguardo sui miei fidati cani, le uniche creature di questa terra che valgano più del denaro.
Aynuk appare all’improvviso, quando arriviamo in cima al Ay-Inuit. E’ una macchia scura in fondo alla valle, tagliata in due dal filo d’argento delle acque ghiacciate dell’Hkk. Si distinguono le due torri che segnano l’ingresso del fortino dove regna Kanak.
Il negro parla.
“Laggiù. Noi proseguiremo ad est e ci accamperemo sull’altipiano. Anche il resto del tuo oro ti aspetterà”
Entro nel villaggio che il sole è ancora alto. C’è una bettola e profumo di carne arrostita. Entro, mi siedo e il mio sguardo incontra il suo. Le lunghe trecce bionde sono sedute di fronte a me, si alza e si siede al mio tavolo, di fronte.
“Mi hai salvato la vita e io voglio ringraziarti”
Beviamo parecchio e la sua bellezza cresce in proporzione alla birra che beviamo. Evidentemente anche la mia, perché mi prende per mano e mi conduce in una stanza al piano di sopra. Sono ubriaco abbastanza da non accorgermi che è stato troppo facile.
Mai fare del bene, neppure per errore. Ti si ritorcerà contro.
Addio miei amati cani.